L’art. 183, comma 1, lett. bb), del Decreto Legislativo n. 152/2006, descrive il deposito temporaneo come il raggruppamento e il deposito preliminare alla raccolta dei rifiuti. Ma cosa significa e cosa implica questa definizione?
Vediamo in questo articolo tutti i dettagli.
Evoluzione della normativa e implicazioni del deposito temporaneo
Introdotto nel 1997 con il Decreto Ronchi, il concetto di deposito temporaneo è stato modificato dalla L. 6 agosto 2015, n. 125.
Quest’ultima ha incluso il concetto di “deposito preliminare alla raccolta” e specificato che il “luogo di produzione dei rifiuti” comprende l’intera area dove si svolge l’attività produttiva.
Questo istituto, che deroga dalle forme di stoccaggio classiche come il deposito preliminare e la messa in riserva, è stato regolamentato per garantire una gestione sicura e conforme dei rifiuti.
I rifiuti contenenti inquinanti organici persistenti devono essere gestiti nel rispetto delle norme tecniche di stoccaggio e imballaggio per sostanze pericolose, in conformità al regolamento CE 850/2004.
I rifiuti devono essere raccolti e avviati alle operazioni di recupero o smaltimento con cadenza almeno trimestrale. Ciò indipendentemente dalle quantità in deposito, o quando il quantitativo raggiunga 30 metri cubi (di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi).
In ogni caso, il deposito non può superare un anno di durata. Inoltre, il deposito temporaneo deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e rispettare le norme tecniche relative, inclusi gli imballaggi e l’etichettatura delle sostanze pericolose.
Alcune categorie di rifiuti hanno modalità di gestione specifiche stabilite da decreti ministeriali. La corretta applicazione del deposito temporaneo solleva il produttore da alcuni obblighi autorizzativi, purché vengano rispettate tutte le condizioni legali.
In particolare, non si applicano le norme di autorizzazione, pur rimanendo obbligatoria la tenuta del registro di carico e scarico e il divieto di miscelazione.
Tuttavia, il mancato rispetto delle condizioni previste comporta sanzioni per abbandono dei rifiuti e gestione non autorizzata, come stabilito dall’art. 256 del D.L.vo n. 152/2006.
La definizione di “luogo di produzione dei rifiuti”
Come accennato, l’articolo 183 del Decreto Legislativo n. 152/2006 specifica che per “luogo di produzione dei rifiuti” si intende l’intera area in cui si svolge l’attività che genera i rifiuti.
Tuttavia, questa definizione ha creato vari problemi interpretativi, spesso risolti dalla giurisprudenza.
Ad esempio, la sentenza n. 41056 del 13 ottobre 2015 della Corte di Cassazione ha chiarito che il luogo di produzione rilevante per il deposito temporaneo è anche quello nella disponibilità dell’impresa produttrice.
Quest’ultimo è tale purchè collegato funzionalmente al luogo di produzione. La Corte ha anche evidenziato la necessità di adeguati presidi di sicurezza.
Prima dell’entrata in vigore del D.L.vo 205/2010, la definizione di “luogo di produzione” includeva edifici o stabilimenti collegati all’interno di un’area delimitata dove avveniva l’attività produttiva.
Questo evitava la movimentazione di rifiuti in aree esterne e/o pubbliche. Oggi si ritiene che l’area delimitata di cui sopra possa essere dedotta dalla necessità di “disponibilità” e “collegamento funzionale”.
La sentenza n. 16441 del 31 marzo 2017 ha ribadito che il luogo di produzione deve essere quello in cui i rifiuti sono prodotti o che si trova nella disponibilità dell’impresa produttrice.
Dunque collegato funzionalmente al luogo di produzione e dotato dei presidi di sicurezza necessari. Un deposito privo di queste caratteristiche non è considerato conforme.
La sentenza della Corte di Cassazione n. 49674 del 30 ottobre 2018 ha ulteriormente chiarito che il deposito temporaneo deve rispettare le condizioni stabilite dall’articolo 183.
Incluse qualità, tempo, quantità e norme tecniche, oltre ai principi di precauzione e azione preventiva. In caso contrario, il collegamento funzionale e la contiguità delle aree non sono rilevanti.
Scelte e controversie interpretative
Nell’ultima versione del D.L.vo 152/2006, è stato sottolineato il diritto del produttore di decidere se inviare i rifiuti a recupero o smaltimento ogni trimestre o una volta raggiunto un volume di 30 m³ di cui al massimo 10 m³ di rifiuti pericolosi.
Questa flessibilità consente al produttore di adottare il criterio più adatto alle proprie esigenze operative e alla quantità e tipologia di rifiuti prodotti. Garantendo così un’efficace gestione del deposito temporaneo.
Tuttavia, l’interpretazione della norma ha suscitato dibattiti. Alcuni ritengono che sia possibile adottare modalità di gestione diverse per differenti tipi di rifiuti. Utilizzando dunque il criterio temporale per alcuni e quello quantitativo per altri, in base alle esigenze aziendali.
Questa posizione, sebbene non universalmente condivisa, sembra coerente con l’art. 178 del D.L.vo 152/2006, che richiede una gestione dei rifiuti basata su efficacia, efficienza ed economicità.
La flessibilità nella gestione del deposito temporaneo è giustificata dalla necessità di trattare i rifiuti in modo meno rigido rispetto alle fasi successive, che richiedono autorizzazioni specifiche.
Rispetta i limiti quantitativi e temporali imposti dalla legge e garantisce comunque il controllo del produttore sui rifiuti. Un aspetto pratico interessante riguarda l’annotazione nel Registro di Carico e Scarico.
Anche se la normativa non richiede espressamente di indicare il criterio scelto (temporale o quantitativo), farlo può facilitare la gestione e la comprensione delle operazioni.
In passato, si era ipotizzato di rendere obbligatoria questa annotazione, ma l’idea non è stata confermata. Tuttavia, indicare il criterio utilizzato rimane una pratica utile per assicurare una gestione trasparente e conforme alle normative vigenti.
In conclusione, è consigliabile registrare la modalità di gestione scelta fin dall’inizio, per una gestione chiara ed efficiente del deposito temporaneo dei rifiuti.
La gestione del deposito temporaneo per categorie omogenee di rifiuti e altre precisazioni
Secondo l’art. 183, comma 1, lett. bb), n. 3 del D.L.vo n. 152/2006, il deposito temporaneo deve avvenire per “categorie omogenee” di rifiuti.
Tuttavia, la Cassazione Penale, Sez. III, con la sentenza n. 11492 del 19 marzo 2015, ha chiarito che la verifica dell’omogeneità non può basarsi semplicemente sulla classificazione di rifiuti urbani e speciali, pericolosi e non pericolosi di cui all’art. 184 del D.L.vo n. 152/2006.
L’omogeneità deve essere determinata in base a specifici codici EER, che forniscono una classificazione tecnica precisa dei rifiuti.
La stessa sentenza distingue tra deposito preliminare e messa in riserva. Il primo riguarda rifiuti destinati allo smaltimento, il secondo quelli in attesa di recupero. Entrambe queste forme richiedono autorizzazione e, in caso di mancanza, sono soggette a sanzioni severe.
Come l’arresto da tre mesi a un anno o un’ammenda fino a ventiseimila euro per rifiuti non pericolosi; l’arresto da sei mesi a due anni e la stessa ammenda per rifiuti pericolosi.
Inoltre, il deposito incontrollato o l’abbandono di rifiuti, vietato dall’art. 192, si verifica quando i rifiuti non sono destinati né allo smaltimento né al recupero. Le sanzioni per tale violazione sono delineate negli artt. 255 e 256 del D.L.vo 152/2006.
Un’eccezione particolare riguarda i rifiuti derivanti da attività di manutenzione. Il D.L.vo 152/2006 distingue tra manutenzione specifica (art. 230), che riguarda le reti e infrastrutture, e manutenzione generica (art. 266, comma 4), che include tutte le altre attività.
In entrambi i casi, si applica una fictio juris che permette di considerare il rifiuto prodotto in un luogo diverso da quello effettivo e di procedere al deposito temporaneo in deroga alle disposizioni standard dell’art. 183.
Questa interpretazione giuridica offre maggiore flessibilità nella gestione dei rifiuti, ma richiede una precisa comprensione delle norme e delle classificazioni tecniche per garantire la conformità legale.